Questo post in realtà si sarebbe potuto alternativamente intitolare labirinti, fumo, sud, terra, freddo, ossessione, zampe. Ho scelto di intitolarlo invece in questo modo per rappresentare una sensazione angosciante vissuta in quel di terra di Maghreb. Vero è che questi ultimi dieci giorni rappresentano l'esatto contrario dello stile di viaggio che ho voluto e potuto trovare (già ne avevo discusso): un viaggiare lento, coi tempi di una conoscenza più dolce e - almeno idealmente - più profonda.
L'avvicinarsi della frontiera del rientro, la scadenza finale, mi ha riportato ad una fame visionaria; non c'è tempo per fermarsi, bisogna riempirsi gli occhi di sensazioni, colori, suoni, odori. Ogni ora di giorno e notte è preziosa perché è l'unico istante in cui qualcosa potrebbe accadere; per dormire e morire c'è sempre tempo.
E inevitabilmente il modo si è rivelato sbagliato.
Mi spiego meglio.
Premessa, Fes e Marrakech sono città meravigliose, nel senso che suscitano meraviglia, ti lasciano a bocca aperta.
Fes con un vero e proprio labirinto di vicoli ncudduliati (parola migliore che mi viene per descrivere un serpente arrotolato su se stesso), aggrovigliati, claustrofobicamente uguali l'uno all'altro e contemporaneamente sempre nuovi.
Solo dopo due giorni di cammino a tentoni ho cominciato a intuirne la struttura, ma quante strade senza uscita, quanti ritorni sui propri passi.E senza una piazza (questa la vera claustrofobia), senza uno spazio aperto dove respirare. Giù, giù, sempre più giù, in quella che un sardo mi ha definito come discesa agli inferi.
Dove pensi che sia finita si apre una nuova porta
e il polipo di pietra si estende coi suoi mille tentacoli di fruttivendoli, ciabattini,
conciatori, tintori, ferraioli,
datteristi, orafi, argentieri, bronzisti, pellettai, cinturai, macellai, pollai, costruttori di bendir e tamburelli e darbuke.
Marrakech, mitica città rossa, è più aerea; simile intrico di strade e stradelle che per fortuna spesso e volentieri si allargano in piazzette ombrose dove si possono allargare i polmoni.
Diversamente che a Fes si può anche vagare per corridoi silenziosi ascoltando il battere delle scarpe sull'acciottolato.
A Fes l'unica è entrare in una moschea o
madrasa, per mettere il silenziatore ed ubriacarsi di luce.
Certo poi ci sono non so quanti suq, i mercati, anche qui piacevole ritorno alle atmosfere dei bazar orientali.
Ed il fulcro di tutto quanto, la piazza Djamee al Fna.
Un anonimo ed immenso slargo dove però al calar delle tenebre succede di tutto.
La gente si raccoglie intorno ai tavolini dove si servono cuscus e tagine, piedini di vacca, spiedini, panini. Il fumo delle griglie pervade l'aria diffondendo la luce delle lampadine bianche tipo festa di paese.
E pochi metri più in là si ritrovano musicisti
gnawa,
cantastorie, incantatori di serpenti,
artisti di strada, donne che dipingono tatuaggi all'henné,
suonatori di
oud,
bendir a spregio, banjo, danzatori.
Un luogo veramente splendido, direte voi.
In effetti filtrando a distanza di qualche giorno lo è.
Ma c'è una frontiera insormontabile.
La presenza di orde di turisti fa sì che qualunque straniero lo sia (non che mi ritenga io qualcosa di speciale). Quindi - secondo la definizione di un amico brasiliano - siamo
carteras con patas, portafogli con le zampe.
Frontiera è quella distanza per cui tutti, con pochissime eccezioni, quelli che mi hanno rivolto la parola lo hanno fatto con un interesse ben preciso: attirarmi nel loro negozio e vendermi i loro prodotti, portarmi da qualche parte e chiedermi la mancia, condurmi alla bottega del fratello perché potesse vendermi il suo prodotto, trovarmi un taxi, indicarmi la piazza in cambio di una mancia. Un simpatico signore incontrato in una piazzetta, dopo un paio di minuti di chiaccherata mi invita a casa dove mi offre un tè. Comincia quindi a dirmi che essendo medico conosce le erbe medicinali e quindi la moglie mi presenta un set di spezie da cui posso comprare souvenir da portare a casa.
Un simpatico ragazzo che vive a Milano mi porta a fare una passeggiata del paese, piacevole chiaccherata serale. Poi quando di notte torno all'albergo mi fa trovare la donnina berbera pronta a vendermi il suo prodotto.
E tutti, dicesi tutti, o davanti ai miei rifiuti o anche direttamente, han tentato di vendermi fumo.
La dinamica è quella, che ti aspettavi? Sono d'accordo, ma ciò che mi ha infastidito è l'estrema aggressività.
L'ossessionante ossessione, l'ossessionante ritornello, hola, bonjour, italiano, ciao, fumo, hascisc', entra solo per vedere, hascisc', buono prezzo, hascisc', no obbligato, hascisc', dame qualche moneta, hascisc', taxi, hascisc', la piazza è di là, hascisc', hascisc', hascisc'.
Aggressività significa anche che rispondi laa sciukran, no grazie, non merci, no gracias e ti fanno il pappagallo laa sciukran, laaaaa, che ti viene voglia di girarti e tirargli una centra.
Dimenticavo, Ramadan! Mi pare giusto, mi becco il ramadan in Turchia, me lo ribecco in Marocco.
Solo che in Turchia sono mooooolto vaghi. In Marocco il ramadan lo fanno tutti, anche quelli che normalmente non sono molto religiosi, o punto. Perché è un po' come da noi per natale, si torna a casa, ci si ritrova in famiglia, si vedono gli amici.
Per i turisti non ci dovrebbero essere problemi, ma a me faceva un po' brutto mettermi a bere e mangiare in mezzo alla strada.
Risultato, pochissimo cibo (anche perché con quel cazz' di caldo!) giusto un po' d'uva piluccata di nascosto e fughe nei vicoli più oscuri per bere un po' d'acqua.
Il ramadan rende inoltre la gente nervosissima, soprattutto quelli che fumano come turchi (ahahaha); nervosiiiiisssssimi!!!
Nella sola prima giornata quattro risse nella via davanti all'albergo, con bottiglie frantumate, urla, ragazze che si pigliano a chianellate, che si tirano i capelli. Nel terzo giorno il bus si ferma per una sosta e dopo un'ora ancora non è partito. Sotto un sole cocente. Faccio solo in tempo a vedere l'autista che viene portato via da un ambulanza insieme al bigliettaio.
Frontiera è anche il fatto che mi hanno spesso impedito di entrare in una moschea. Ramadan? Non credo, penso più il desiderio di non vedersi rompiballe anche negli spazi più loro.
Per fortuna c'è Casablanca.
Lì finalmente trovo una sana indifferenza, camminando per i vicoli bianchi della medina, tra le botteghe, le moschee affacciate sul mare, il Rick's Café, dove giorno e notte Humphrey Bogart e Ingrid Bergman si amano appassionatamente su uno schermo in bianco e nero.
Nell'hammam nessuno mi chiede se voglio un massaggio, una grattata col sapone. E mi fanno pagare il giusto.
Nelle bancarelle per me il pane costa come per gli altri, il trancio di pesce, i pescetti fritti me li regalano per assaggiarli.
Un ragazzo mi sorride semplicemente e tace guardandomi vagare con lo zaino in spalla, la ragazza di un internet café mi permette di controllare gratis la mail, tanto sono solo cinque minuti, dei bambini mi passano il pallone, un ragazzo nell'ostello mi regala il guanto per la doccia.
Per questo bisogna ritornarci, perché è un paese dalle potenzialità umane immense.
Per ora si limita a lanciarmi dei segnali sul futuro.
Frontiere sono tutte quelle che ho passato in un anno.
Per mare e per terra.
O attraverso tunnel.
Frontiere che mi riportano a casa.
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